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Fondazione Luchetta e UNICEF, per non abituarsi alla guerra

Intervento di Marzio Babille, rappresentante Unicef per l’Iraq, alla conferenza stampa di presentazione del Premio giornalistico Luchetta-Unicef 2015

Per prima cosa ringrazio la Fondazione Luchetta, Giovanni Marzini, Cristiano Degano e tutti quelli che conosco da molti anni. E’ vero, non potevo mancare a questa situazione perché conoscevo due dei quattro che sono oggi ricordati dalla Fondazione e dal Premio. Ci sono 2 o 3 motivi che ci accomunano.

La Fondazione Luchetta nasce con lo spirito di informazione corretta, di informazione sul campo, verificata e di evidenza, che Marco Luchetta e altri hanno continuato per tutta la loro carriera non solo a evocare, ma anche a praticare; sono triestini, e la città ci porta ad avere una direzione comune; e poi c’è la guerra.

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Marzio Babille e Daniela Luchetta

Ho avuto il privilegio di lavorare con l’Unicef per 15 anni, in diversi paesi africani, 8 anni in India, in Darfur, in Chad, brevemente in Libia e da tre anni e mezzo in Iraq, prima come medico e poi come rappresentante.

Io in questi 15 anni ho lavorato prevalentemente in situazioni di grave carestia o di guerra, quindi ho avuto una certa esperienza, prima tecnica e poi gestionale. Alcune delle cose che ha detto Andrea [Iacomini] vanno nuovamente sottolineate, ovvero la difficoltà della popolazione che ci circonda, in Italia ma anche in altri paesi più ricchi dell’Italia – Germania, Inghilterra, Stati Uniti, paesi scandinavi – di comprendere che l’Occidente deve cambiare passo. E se non lo farà – c’è un detto in inglese – if you don’t visit Middle East, Middle East will visit you. Che vuol dire, se non prestiamo attenzione di ciò che accade da qualche altra parte, le conseguenze di questa scelta, di questo approccio, si rifletteranno negativamente su di noi.

La sintesi del Medio Oriente di oggi, vista da Baghdad dove io vivo, o da Erbil nel Kurdistan dove vivo recentemente da quando c’è stata l’avanzata e l’offensiva dell’ISIS, porta questi numeri. 250.000 profughi siriani di origine curda entrati in quattro province del Kurdistan nel 2013. Le quattro province del Kurdistan fanno 4 milioni di persone, quindi è un territorio piccolo. 250.000 suddivisi in 12 campi profughi allestiti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati, dall’Unicef e dal Governo dell’autonomia curda.

Dal gennaio al maggio del 2014, nessuno se n’è accorto tranne noi, c’è una galassia di formazioni jihadiste di cui al-Qaeda è l’ispiratrice – ma solamente l’ispiratrice, perché altri ne hanno preso il posto dal punto di vista strategico e tattico – e le più grandi province centrali dell’Iraq cadono. Da gennaio a maggio: Fallujah, Ramadi, e una serie di altre località.

L’esercito ripiega, i jihadisti fanno la guerra dell’acqua, inondano le piane centrali dell’Iraq, che come sappiamo era il Giardino dell’Eden, era il food-basket (il vassoio del pane) di tutto il Medio Oriente. Noi avremo un’insicurezza alimentare quest’anno e il prossimo anno che colpirà probabilmente più di 10 milioni di persone.

A maggio c’è una ulteriore offensiva di un fronte che comprende questa galassia di gruppi e che si unisce nell’ISIS che è una vecchia creazione politica, ma che viene rinnovata da alcune cose: l’innovazione, l’economia e alcune delle più sofisticate tattiche militari che si possono vedere in giro in questo momento. Cade la città di Mosul, seconda città dell’Iraq con 2 milioni e mezzo di abitanti, e cade in 9 ore, nello spazio di una notte. 70 mila militari iracheni del governo federale combattono e vengono sconfitti, oppure fuggono; anzi, la maggioranza fugge, una specie di 8 settembre gravissimo. E poi cade Tikrit, cadono tutti i presidi degli iracheni sunniti, perché questa formazione [ISIS, N.d.R] oggi rappresenta i diritti negati in Iraq delle popolazioni sunnite, o le rivendicazioni politiche e di diritti dei sunniti in Siria.

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L’ISIS oggi vince perché è l’unica formazione politica che è riuscita ad abolire le frontiere. Non c’è più nessuna frontiera da 25 km di costa siriana fino al confine con l’Iran. Hanno preso tutto, e hanno coinvolto la popolazione locale sunnita creando Governo, creando un Ministero dell’Informazione – abbiamo già sentito – utilizzando l’informazione in modo estremamente intelligente, vincendo fuori casa, reclutando in maniera molto nuova in una guerra di innovazione. Quindi tecnologia, economia del petrolio – ISIS oggi controlla credo 14 importanti infrastrutture petrolifere in Siria e nel centro dell’Iraq.

Perché perdono? Perché io ho una convinzione su questo, che perderanno. Perderanno perché mentono. ISIS ha una campagna di informazione eccellente, accurata, professionale e moderna. La modernizzazione del Califfato è la grande opportunità che il califfo Al Baghdadi è riuscito a realizzare, laddove tutti i predecessori hanno fallito: ci sono stati altri tentativi storicamente, che non cito. Però perderanno perché non sono capaci di riconoscere gli altri.

ISIS elimina l’avversario; ISIS massacra chi non è mussulmano; ISIS rapisce le donne per farne delle schiave sessuali: 5000. Noi in questo momento in Iraq stiamo tentando di avviare un progetto, fra l’altro finanziato dal Ministero degli Esteri a partire da gennaio, per circa 290 di queste 5000 che si sono liberate, o sono state rilasciate.

Perché è importante questa solidarietà a tutto campo, questa innovazione dove si richiedono nuove parnership? L’Unicef da solo non fa nulla, come non fa nulla il Governo iracheno, il Governo curdo, il donatore singolo non fa nulla. Servono alleanze vaste e un elemento importante che vorrei aggiungere, cioè la velocità di esecuzione. Noi siamo riusciti come Unicef Iraq a portare l’acqua da bere, in agosto a 50 gradi, a 850.000 persone in 30 ore dal loro sfollamento. Perché sono arrivati 2 milioni di cittadini iracheni in Kurdistan, quando è caduta Mosul, quando è caduta Tikrit.

Quando io sono arrivato da solo (eravamo in cinque) su richiesta del Governo curdo, per cominciare ad allestire l’assistenza umanitaria infantile, ho trovato una colonna umana di cui non riuscivo a vedere la fine. Ed erano probabilmente 9-10 mila, che arrivavano così… 9-10 mila persone al giorno, da sfamare, da mettere sotto una tenda, da registrare e soprattutto da ricongiungere.

Uno dei problemi più importanti che abbiamo, e che sarà il problema del futuro e che in parte è secondo me è una degli aspetti più importanti di quello che la Fondazione fa, è non solo curare il corpo del bambino, ma curarne l’anima. Ricongiungere i bambini separati alle loro famiglie, dare una casa anche temporanea a chi non ce l’ha, dà un’opportunità indispensabile che non viene data da nessuno. Questo è ciò che l’Unicef fa, ma che fa anche la Fondazione Luchetta. E per questo che dico, servono maggiori partnership, maggiori alleanze, maggiori coalizioni – com’è stato detto, credo che sia una buona sollecitazione – le coalizioni del bene. Non c’è niente di più vincente sul male, che circondare il male dal bene, circondarlo!

Io credo che il Governo curdo, l’ho già detto e lo ripeto, ha dato una prova di capacità istituzionale nella protezione dei diritti umani, dei diritti delle donne, dei diritti dell’infanzia, della sopravvivenza e dell’educazione. Noi abbiamo messo a scuola nelle tende probabilmente 150.000 bambini in 3-4 mesi. Se non ci fosse stato il Governo curdo e il Ministro dell’Educazione, che ha lavorato con me, questo non sarebbe stato possibile.

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Queste coalizioni, queste alleanze, nascono dagli uomini, ma nascono dall’abilità di avere una strategia semplice, di utilizzare bene il denaro che non è tanto, e di avere l’opportunità di far avanzare l’umanità. Questo è quello che succede oggi tra la Fondazione Luchetta e l’Unicef. C’è un passo in più per avanzare verso un’umanità migliore, dovunque questi bambini si trovino.

Le guerre rimangono. Credo che sia stato detto oggi, dobbiamo considerare che la guerra in Siria, la guerra in Iraq potrebbe estendersi – c’è lo Yemen che sta venendo giù a pezzi, c’è il Libano che è fragilissimo – dobbiamo entrare nell’ottica che questi problemi saranno con noi per molti anni. Quindi bisogna misurare i nostri passi, bisogna misurare le nostre energie, essere molto pragmatici, ma bisogna guardare lontano sui principi e sui diritti, il diritto dell’infanzia a sopravvivere.

Abbiamo avuto bambini yazidi e cristiani fucilati (io li ho visti e ne ho documentazione), abbiamo visto bambini torturati, abbiamo visto recentemente bambini rapiti e costretti alle scuole coraniche. Bambini non mussulmani ovviamente, alcuni dei quali con grande difficoltà siamo riusciti a riportare a casa. Ci sono nuove violenze, molto più forti di quanto potessimo immaginarlo negli ultimi 20 anni, che ci riportano dei quadri molto foschi del passato di 60 anni fa: case marchiate, persone torturate e marchiate, e poi espulse… fatta salva la vita.

Queste sono le cose che noi viviamo quotidianamente, in un livello di scala di violenza incredibile, al quale non ci vogliamo abituare. Ed è per questo che è importante parlarne, fare in modo che tutti ne parlino, e moltiplicare l’opportunità di avere da una parte formazioni di istituzioni private e pubbliche che guardano lontano e cercano di arrivare lì dove i problemi esistono.

Il 62% degli immigrati e dei barconi che arrivano a Lampedusa oggi, negli ultimi 6 mesi, è fatto di gente che scappa direttamente o indirettamente dal conflitto mediorientale. Non sono più i senegalesi, non sono più i tunisini, sono quasi sempre media borghesia – musicisti, architetti, ingegneri – quelli che noi troviamo nei campi dei rifugiati e degli sfollati. Se non si interviene dove i problema c’è, con risorse, con strategie, con realizzazioni, con uomini, questo problema incrementerà i problemi a casa nostra.