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“La ragazza del campo” chiude il Lunatico Festival

Il reportage di una ragazza palestinese assistita dalla Fondazione Luchetta ha concluso l’8 settembre scorso “Lunatico”, festival di musica, teatro e appuntamenti culturali.

Si è svolta in un clima familiare e informale la serata che Lunatico Festival ha dedicato alla Fondazione Luchetta, e intitolata “In fuga dalla guerra, storie di bambini”. A moderare la chiacchierata tra il pubblico e Daniela Luchetta, presidente della Fondazione, sono stati lo scrittore Pino Roveredo e Alessandro Metz, presidente della cooperativa La Collina, promotrice dell’evento nel Parco di San Giovanni.

Oltre a illustrare la storia e le attività della Fondazione, da poco potenziata con una terza casa di accoglienza, la presidente Daniela Luchetta ha illustrato una delle più delicate situazioni che la Fondazione abbia recentemente gestito. Si tratta dell’arrivo, per la prima volta, di due bambini provenienti dalla striscia di Gaza, che nel 2016 sono stati accolti per essere curati dal disturbo post traumatico da stress.

E’ stata anche un’esperienza “burocratica” che ha permesso di far arrivare da Gaza una nuova assistita. Questa volta si tratta di una ragazza, Islam, studentessa di giornalismo. Ed è stata proprio lei la protagonista dell’ultima serata di Lunatico Festival.

Grazie a una mediatrice culturale, che ha fatto da interprete, Islam ha potuto parlare con il pubblico e rispondere a interrogativi, alcuni dei quali, come ha detto la ragazza, “non possono essere spiegati con le parole”.

L’intervento di Islam è riassunto nel pezzo che lei stessa ha letto in arabo, e tradotto in italiano, leggere un suo pezzo sull’esperienza di vita in un campo di Gaza e il suo percorso di riscatto personale. Articolo che riportiamo qui.

La ragazza del campo

68 anni fa

Si erano svegliati in una notte buia piena di silenzio, i miei nonni erano stati obbligati a fuggire dal loro villaggio. Di questo villaggio non so niente, a parte il suo nome e qualche vecchia storiella che mi hanno raccontato.

Ai loro occhi le stagioni ed il tempo trascorrevano velocemente, come se nulla cambiasse, era sempre tutto uguale e la loro vita si rifletteva in uno specchio, uno specchio che mostrava solo la loro sofferenza in una tenda del campo profughi. Questa sofferenza ha avvolto me e quelli che ci stavano interno, permeava tutto il campo.

Il campo è formato da case vicine tra loro con tetti di amianto e strade strette dove manca l’ordine, dove manca la luce, dove manca l’aria. Manca la vita. Eravamo come in gabbia, una gabbia soffocante.

Da casa mia si poteva sentire sempre il suono degli operai che costruivano case nella zona e la gente che cantava le canzoni tipiche del mio paese. Ricordo ancora la mia vita scolastica e lo scambio di messaggi con un albero che sembrava mi chiamasse a sé perché mi sedessi sotto di lui e gli confidassi i miei segreti.

Ho raccontato all’albero la storia di Khadisha, una ragazza che ho incontrato alle elementari, che mi ha fatto capire che le guerre servono per far vincere la verità in un altro momento e che mi prendeva in giro per come muovevo le mie gambe.

Purtroppo sono nata con un difetto ad una gamba. Questo mi fa camminare in maniera diversa, quasi storta. Mi ha reso diversa. Lei mi fece capire che ero “sbagliata”, che quella diversità era un difetto che avrebbe bloccato la mia vita. In quel momento ho imparato a difendermi ed ho deciso che non avrei più permesso che gli occhi degli altri vincessero sulla mia vita e su quello che voglio fare e diventare.

Al mio caro albero raccontai anche delle lezioni di arabo, degli improvvisi bombardamenti israeliani, della paura e degli sguardi vuoti e terrorizzati dei miei insegnanti. Ricordo ancora come io ed i miei compagni di classe ci guardavamo. Ricordo anche le urla della nostra cara vicina Om Omar che aveva perso suo figlio in guerra.

Raccontai al mio albero anche delle bombe al fosforo cadute sul tetto della nostra casa.
Raccontai delle pozze di sangue, assorbite dalla terra secca, disidratata dal silenzio e dalle urla dei bambini e della gente che perdeva tutto: la famiglia, la casa, gli amici…
Raccontai di migliaia di urla nelle 51 notti di guerra durante la festività di fine Ramadan.
Raccontai anche dei bambini che riuscivano comunque a giocare nei giorni di festa, anche se avevano vissuto i momenti peggiori che si possano immaginare in una vita.

Poi gli parlai dei miei sogni, che ho costruito pian piano fin da quando ero una bambina, sogni che avevo paura svanissero a causa della devastazione della mia casa e delle mie perdite.
Gli parlai di morte e di guerra, di quello che ho sempre visto nella mia vita, e di come mi sono aggrappata al mio sogno, con la paura costante di perderlo.

Raccontai di come molti laureati cercavano di scappare via mare, e di quanti muoiano ancora oggi prima di arrivare alla libertà.
Ecco perchè vorrei diventare una giornalista, per raccontare la verità, per raccontare quello che ho vissuto e che ho condiviso con le persone attorno a me.
Al mio albero raccontai dei miei tentativi di fuggire verso la vita, verso il mondo, volevo fuggire dal buio e cominciare a vivere.

Vorrei continuare a parlare anche a voi dell’occupazione, della mancanza di luce, del fatto che, anche mentre sono qua, lì manca l’elettricità e non riesco a contattare la mia famiglia. Vorrei parlarvi dei miei sogni, vorrei parlarvi del mio sogno di fuggire…ma poi? Poi è arrivato il giorno che aspettavo da una vita…guardavo le lancette dell’orologio andare avanti con grande felicità, perchè il giorno della mia liberazione stava arrivando. Sarei uscita da Gaza per curarmi, finalmente avrei iniziato a vivere anch’io.

Non dimenticherò mai i confini che ho attraversato e il viaggio duro che ho intrapreso. Non è stato facile, ma ora…be’ ora sono qua, ora sto vivendo anch’io, ora sono libera, posso respirare, non sono più chiusa nella gabbia che tutti chiamano “campo”. Ora ho cominciato a vivere ed è grazie a voi. Grazie alle persone che hanno reso tutto questo possibile. Grazie per avermi salvato, grazie per aver lasciato che il sogno a cui mi ero aggrappata per tutto questo tempo non venisse distrutto.

ISLAM HALAWA