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Miran Hrovatin ha lasciato un grande vuoto a Trieste

Fu la ripetizione di un incubo a cui Trieste non era pronta. Ma in realtà non si è mai pronti ad accettare la morte, tanto più se si tratta di una morte violenta, barbara, perpetrata da altri

di Fabiana Martini
testo originale pubblicato su Articolo21

Non erano passati neanche due mesi dalla strage di Mostar, in cui tre giornalisti triestini — Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Saša Ota — avevano perso la vita, dimostrando che la guerra che si stava combattendo al di là del confine, a due passi da casa, riguardava anche noi, ed ecco un’altra tragedia: altri due colleghi ammazzati mentre facevano il loro mestiere, un altro triestino che non fa ritorno. La guerra ci riguarda sempre, anche quando è apparentemente lontana.

Era il 20 marzo 1994, 26 anni fa, il giorno in cui in Somalia furono assassinati la giornalista Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, colui che quasi sempre viene indicato come il suo cineoperatore. Ma dare un nome e un volto alle vittime è importante: a quelle del Mediterraneo come a quelle della mafia, ai morti sul lavoro come a quelli che cercano la verità a mano disarmata. Fare memoria significa esercitare la responsabilità e rinnovare l’impegno che quella storia ci rimanda, significa riconoscere che quella vita era importante, aveva un senso, lascia un vuoto, non è un numero nella conta dei caduti.

Miran Hrovatin ha lasciato un grande vuoto a Trieste. Perché non era solo un professionista serio, di provata esperienza, capace di muoversi in contesti a rischio — la giornalista Rai Giovanna Botteri, che ha lavorato con lui in Croazia e poi in Bosnia, durante la guerra nella ex Jugoslavia, dice che «era una sicurezza, con lui non rischiavi mai» —, ma anche e prima di tutto una persona, una bella persona: solare, ironico, entusiasta, curioso e incredibilmente buono, dice sempre Botteri; vivo, dinamico, pieno di energia, lo ricorda Niki Filipovič, oggi giornalista Rai, allora suo collega all’agenzia Videoest; solare, positivo, ottimista, capace di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, secondo Sergio Ferrari, l’amico fraterno, il compagno di scuola, il testimone di nozze, ma anche il collega. Quello con cui aveva frequentato l’istituto tecnico, con cui aveva iniziato a lavorare all’agenzia Alpe Adria, con cui nel ’76 aveva fatto il terremoto del Friuli, con cui era stato quattro mesi in Vespa a Stoccolma. I viaggi — dei veri e propri viaggi-esplorazione li definisce Giampaolo Penco, attuale responsabile dell’agenzia Videoest, che a Miran ha dedicato un documentario (https://www.youtube.com/watch?v=jbzeu1VUTq8) — sono sempre stati parte della sua vita e del suo lavoro: al ritorno organizzava delle serate diapositive per coinvolgere gli amici, perché era un tipo godereccio, un vero protagonista della “Movida” degli anni ’80, che del suo lavoro amava la possibilità che gli offriva di incontrare persone nuove, con cui si relazionava facilmente grazie alle molte lingue che parlava. E i molti contatti che aveva al di qua e al di là del confine con la ex Jugoslavia, contatti maturati anche grazie a un’attività commerciale precedente a quella di reporter, si rivelarono preziosi quando scoppiò la guerra, anche perché era uno che non si spaventava ed era altresì capace di mediare, ricorda Ferrari. Qualità che Ilaria Alpi aveva visto in azione a Belgrado e che l’avevano convinta a chiedere di lavorare con lui.

L’azione. «Gli piaceva l’azione. Voleva andare dove accadevano le cose» dice Penco. Ma in modo razionale, non imprudente, ricorda Filipovič: «era un perfetto organizzatore e un precisino. A suo tempo aveva offerto la sua consulenza per allestire i mezzi blindati della Rai, realizzando una minuziosa ricerca, quando ancora non avevamo tutto a portata di clic, sulle varie tipologie e relative caratteristiche; oggi sono sicuro che sarebbe riuscito a reperire le mascherine che tutti cercano». La sua meticolosità è confermata anche da Botteri: «Conservo le cassette girate insieme con dentro tutti i foglietti col time code: per aiutare chi montava a ritrovare i punti, in modo che ogni singolo fotogramma ottenuto con rischio e fatica non andasse perduto.» Una precisione che non gli faceva perdere di vista il cuore della professione: raccontare l’umanità. A qualsiasi latitudine e in qualsiasi circostanza. Quando filmava le navi della Fincantieri e riusciva a trovare l’operaio nascosto e a farlo uscire dall’ombra, racconta Filipovič, come quando dopo la strage del mercato di Sarajevo si trovò nella sala mortuaria con un bambino morto sul lettino, ricorda Botteri: ne uscì in lacrime, realizzando che poteva essere suo figlio. Fu per quello che decise di partire per la Somalia, per provare a togliersi almeno per un attimo di dosso tutto quel sangue e quella morte.

Del resto era sempre pronto a girare pagina, a ripartire, ad andare in cerca di cose nuove: era una persona dai molteplici interessi, amante dell’esotico, che aveva una vera e propria passione per la musica, ma anche un’adorazione per le auto, per le macchine fotografiche e gli impianti stereo, persino per le lavastoviglie, ricorda Penco, che con Miran nel 1991 aveva girato tra Brescia e la Provenza un video per il brano “Per amore mio” di Vecchioni e in Ungheria due anni prima, nel 1989, nei giorni della caduta del muro di Berlino, il videoclip di “Visioni” di Alice. Immagini di una natura suggestiva, di cui riusciva a cogliere la bellezza. Una natura capace di sorprendere anche in mezzo alle bombe, come quando vicino a Gornji Vakuf trovò un cucciolo di cane abbandonato e se lo mise al caldo nella giacca con l’intenzione di portarlo in regalo a suo figlio Ian, racconta Botteri.

Ci manca Miran Hrovatin: manca alla sua famiglia, ai suoi amici, ai suoi colleghi, manca alla Fondazione che porta anche il suo nome, che per bocca della presidente Daniela Schifani-Corfini Luchetta in quest’ennesimo anniversario senza giustizia condivide il ricordo di una persona che ha saputo coniugare il lavoro con l’amore per la verità, la serietà, la sobrietà, dimostrando il desiderio di un mondo più giusto.

Manca a tutti, anche a quelli che non lo sanno, perché l’informazione, quella vera, è come il pane, non può mancare. «Adesso più che mai» dice Giovanna Botteri, che ricorda anche Ilaria Alpi come una bellissima persona, una bravissima giornalista, una grande amica, tutte e due ultime arrivate, finite a coprire quei pezzetti di mondo dove nessuno voleva andare «c’è bisogno di inviati che vadano sui posti, che ti raccontino cosa succede davvero. C’è tanta propaganda, disinformazione, fake news. Ma bisogna crederci. Avere cuore e coraggio. Sapendo che alla fine, di fronte alla linea rossa, sarai solo.»

Sapendo che il compito del giornalismo è proprio “diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia”, come ha affermato Horacio Verbitsky.

Ma anche sapendo che c’è una comunità che ti aspetta, che ti scorta, che non archivia né il ricordo né la richiesta di verità e giustizia.