Sam, il bambino etiope salvato a Trieste da una malformazione rara
Quella che stiamo per raccontarvi è la storia di “Sam”, bambino etiope di 12 anni salvato in Italia grazie a un intervento di “chirurgia ricostruttiva” eseguito all’Istituto infantile Burlo Garofolo di Trieste. Sam è il nome che abbiamo deciso di dargli per mantenere la sua privacy: nato con una malformazione molto grave a vescica, parete addominale e genitali, le sue condizioni di salute erano pessime. Sua mamma Bosè, sola con altri due figli, non si è mai arresa, fino a quando ha incontrato il Centro aiuti per l’Etiopia onlus che li ha aiutati a venire a Trieste, ospiti del Centro di via Valussi della Fondazione Luchetta, Ota, D’Angelo, Hrovatin. I medici del Burlo hanno fatto il resto, con un complesso intervento eseguito dal primario del reparto di Chirurgia e Urologia pediatrica, il professore Waifro Rigamonti. E adesso che Sam ha appena iniziato a condurre una vita normale, vuole diventare medico per aiutare i bambini come lui.
In termini medici, la malformazione di Sam si chiama “complesso estrofia della vescica – epispadia”. Una grave anomalia dell’apparato muscolo-scheletrico e genito-urinario caratterizzata dalla mancanza sia della porzione inferiore della parete addominale sia della parete anteriore della vescica e dell’uretra. La parete posteriore della vescica è estroflessa e fusa lateralmente con la parete addominale residua.
In sostanza, la vescica, anziché essere interna, è aperta ed esterna. Priva della parete anteriore, l’urina cola continuamente, senza sosta. E quando si infetta – come è normale che succeda in un continente caldo come l’Africa – emana un odore tanto insopportabile da compromettere la possibilità di instaurare delle relazioni, avere una vita sociale, o semplicemente di andare a scuola.
«Questo è quanto è successo a Sam» racconta sua mamma Bosè, un’età indefinita tra i 35 e i 40 anni perché «per noi etiopi l’età è indifferente, gli anni dalla nascita non li contiamo».
Il padre di Sam li ha abbandonati presto, così lei si è trovata sola a prendersi cura del figlio malato: «Fin da piccolo, Sam non ha mai avuto una vita normale, perdeva di continuo pipì e io avevo sempre le mani nell’acqua per tenere pulito lui e lavargli i vestiti. Ho provato a mandarlo a scuola, ma in quelle condizioni l’hanno rifiutato. Nessuno ci ha dato un aiuto, né il governo, né il servizio sanitario. Solo qualche anno fa il Comune di Gondar, la nostra città (l’antica capitale etiope, 190mila abitanti, nella regione settentrionale di Amhara, nda) ci ha dato una casa. Nel 2007 le sue condizioni si aggravarono e lo portai nell’ospedale statale, da dove però lo rimandarono indietro dicendomi che non potevano fare niente…»
Ed è sempre in Etiopia che, come spiega il referente Fvg del Centro aiuti per l’Etiopia, Rocco Surace, «pare che qualcuno si sia approfittato della tragedia, lanciando un appello-web per una raccolta di fondi falsa, poi denunciata e scoperta dalla polizia etiope».
Non tutti i mali vengono per nuocere. Una volta apparse sul web, infatti, le foto della malformazione di Sam sono state viste da una coppia di etiopi residente a Milano, che ha segnalato il caso al Centro aiuti per l’Etiopia: è stato quest’ultimo a pagare il biglietto a mamma e figlio incaricandosi delle spese cui stanno andando incontro. Li ha dirottati al Burlo, il quale a sua volta ha chiesto alla Fondazione di ospitarli nel centro di via Valussi.
E il 27 agosto scorso mamma e figlio sono giunti a Trieste.
Dal Burlo il professore Rigamonti spiega che tale malformazione è conosciuta fin dall’antichità, ma che i primi tentativi per curarla sono iniziati solo a metà del 1900. Prima, questi bambini venivano lasciati senza cure ad aspettare la morte per infezione. Probabilmente, nei Paesi come l’Etiopia (tra i Pil pro capite più bassi al mondo) è ancora così. La malformazione è rara: colpisce uno ogni 25-50 mila nati; in Friuli Venezia Giulia un caso ogni 3-5 anni o ancora meno, perché negli ultimi anni si riesce a fare una diagnosi prenatale e molte coppie decidono di interrompere la gravidanza. Tuttavia, a Trieste il numero dei bimbi nati con questa malformazione è in aumento perché alcune mamme che ricevono dall’ecografia prenatale questa terribile diagnosi vengono da lontano a partorire al Burlo dove il bimbo verrà operato poco dopo la nascita.
Sempre Rigamonti spiega che in questi casi «si interviene su genitali, vescica e ossa pubiche per ricostruirli e rimetterli nella giusta posizione». Spesso però questa prima operazione non basta e per raggiungere la continenza urinaria possono essere necessarie altre operazioni anche a distanza di anni. «Per il bene di questi bambini affetti da malattie rare – riprende il primario – sarebbe auspicabile che si individuassero, come già avviene in alcune nazioni europee, dei centri specializzati per la loro cura. Il Burlo è attualmente, per le capacità dei suoi chirurghi delle varie specialità, degli anestesisti, dei pediatri e dei rianimatori neonatali , uno dei pochi centri italiani all’altezza di questo compito …»
Si tratta insomma di una malformazione già di per sé molto complessa, che diventa ancora più difficile se il paziente non è appena nato, ma già “grande” come nel caso di Sam, operato l’otto settembre scorso.
Così il primario: «Si è trattato di deviare il decorso degli ureteri dalla vescica malformata in una nuova vescica fatta in comunicazione con l’intestino così che le urine vengono espulse insieme alle feci. Si è ricostruito inoltre il pene esteriorizzando i corpi cavernosi che erano nascosti sotto le ossa pubiche e ricostruita l’uretra in comunicazione con le vie spermatiche così da renderlo fertile. In questo modo, Sam è potuto diventare continente praticamente fin da subito».
Subito dopo l’intervento, la vita di Sam è cambiata radicalmente.
Quando è uscito dall’ospedale, dopo 15 giorni di ricovero, si teneva già perfettamente pulito e quell’odore insopportabile che lo accompagnava da sempre se ne era andato.
«Appena arrivato – riprende il medico – Sam soffriva ancor più psicologicamente che fisicamente. Non si alzava dal letto, restava a fissare la Tv, e quando ci avvicinavamo si lamentava e urlava. Non l’abbiamo mai visto sorridere, né lui né la mamma. E invece, quando si è risvegliato dopo dieci ore sotto i ferri, la prima cosa che ha voluto sapere è stata se “adesso potrò giocare a pallone”. Oggi, a un mese dall’operazione, sembra un bambino diverso, comincia a capire e parlare l’italiano, continua a guardare il paio di scarpe da ginnastica che gli hanno regalato, aspettando di cominciare a giocare a pallone. Mi ha chiesto “a che squadra tengo” e quando gli ho detto “al Brescia” si è messo a ridere, “ma che squadra è: io tengo al Barca”… Auguri Sam soprattutto per quando tornerai in Etiopia, a convalescenza finita».
Ci sono infatti ancora dei rischi, in Italia facilmente risolvibili, ma che in Etiopia potrebbero essergli fatali.
Ed è proprio per insegnargli la condotta di vita da seguire una volta tornato a casa, che Sam è ancora ospite della Fondazione (insieme ad altri 31, fra bambini, con patologie differenti, ed i loro familiari), dove ha imparato anche ad usare Internet e ad andare in bicicletta. Al Burlo, dove si reca abitualmente per i controlli sanitari, tramite il progetto “Scuola in ospedale” sta prendendo lezioni di chitarra e italiano.
E Sam sorride: «Adesso sono tanto contento. Di quest’operazione avevo paura, ma sapevo anche che era l’unica cosa che potessi fare. Ora potrò giocare a calcio e andare a scuola… E da grande voglio fare il medico».