Conclusa la tre giorni della XX edizione del Premio Luchetta
Riaffermare l’importanza del giornalismo d’inchiesta in una società sempre più difficile da decifrare, da conoscere e da raccontare. Tutelare la professione e la sicurezza di giornalisti e di giornaliste che ogni giorno si fanno testimoni di questa complessità, indagandola con competenza, coraggio e professionalità. È l’impegno che ancora una volta il Premio Luchetta ha voluto ribadire nei tre giorni dedicati alla ventesima edizione della manifestazione.
Un successo in termini di partecipazione di pubblico e di professionisti dell’informazione che a Trieste si sono riuniti e confrontati sui conflitti che fanno notizia o su quelli dimenticati dalle cronache, sul cambiamento climatico e sulle ripercussioni nelle zone più povere del mondo, sull’infanzia sempre più minacciata dalla rete e sulle battaglie che i familiari delle persone scomparse compiono quotidianamente per rintracciarle e scoprire la verità sulla loro sparizione. Tante le voci che si sono alternate sul palco dell’auditorium del Museo Revoltella e su quello del Teatro Miela a Trieste, dove si sono dati appuntamento importanti firme del giornalismo dall’Italia e dal mondo e da dove si sono levati appelli affinché la professione continui a essere riconosciuta come presidio di libertà, troppo spesso minacciato.
«Sono stati tre giorni intensi e ricchi di incontri e di contenuti. Giorni in cui ho conosciuto persone motivate, che hanno messo il cuore in tutti i lavori presentati. Sono orgogliosa che, attraverso il Premio intitolato a Marco, la fondazione sia riuscita a valorizzarli. Grazie a tutti coloro che l’hanno reso possibile», il commento di Daniela Schifani Corfini Luchetta, presidente della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin.
Parole di gratitudine nei confronti dei giornalisti che hanno aderito al bando anche da parte della segretaria e curatrice del Premio Fabiana Martini: «Siamo davvero soddisfatti di essere riusciti, grazie alla qualità dei lavori giornalistici dei vincitori e dei finalisti, a dare voce ai bambini e alle bambine, in particolare a quelli più fragili, togliendoli dall’invisibilità in cui la società del profitto li ha confinati. Lo facciamo da vent’anni a questa parte sull’esempio di Marco, Saša e Dario, che persero la vita a Mostar per realizzare un servizio sui bambini senza nome e per contrastare il processo di rimozione collettiva che la guerra che alloro come ora inevitabilmente mettiamo in atto. Continueremo a farlo con sempre maggiore convinzione».
Il ricordo di Riccardo Iacona, da sempre vicino alla Fondazione e Premio Speciale della Fondazione nel 2019: «È un’operazione straordinaria, insieme a tutte le cose bellissime che ha fatto la Fondazione in questi trent’anni. Da ragazzino, quando facevo l’inviato per Santoro, sono stato mandato qui proprio dopo la tragica morte dei nostri colleghi e ho dovuto scrivere il pezzo. Ho assistito ai funerali, ho conosciuto Daniela, ho parlato con i colleghi, ho visto la telecamera: era tutta scheggiata e tutti si domandavano se dentro la cassetta ci fossero le ultime immagini che avevano girato. Dentro c’erano i bambini che erano usciti dall’assedio di Mostar».
Tra i commenti dei premiati, la giovane e forte voce di Elena Basso: «Sono una giornalista freelance, ho trentadue anni, quindi sono considerata molto giovane per la media delle redazioni italiane. Mi sono trasferita in America Latina perché in questo momento in Italia non c’è un corrispondente pagato dai nostri giornali che stia e copra l’area geografica. Fare giornalismo in zone di conflitto come quella è sempre difficoltoso. Da freelance è ancora peggio. Io lavoro per mesi, a volte per un anno, su una storia e poi i giornali italiani, anche i più importanti, mi pagano cinquanta euro. Io metto a rischio la mia vita, e la mia vita nella nostra democrazia vale cinquanta euro».