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Montebello, la Microarea della Fondazione Luchetta

Tra le attività portate avanti dalla Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin sta crescendo come importanza la Microarea di Montebello, l’ultima arrivata in ordine cronologico.

Ne parliamo con la responsabile, Giuditta Lo Vullo, una vita lavorativa dedicata al sociale – ha lavorato con Basaglia, in Provincia, in Comune, per finire come dirigente in Azienda Servizi Sanitari – sia nell’aspetto di assistenza alla persona, sia in quello amministrativo-burocratico.

Due mesi dopo essere andata in pensione, Giuditta ha deciso di continuare il suo impegno nel sociale presentandosi come volontaria nella Fondazione Luchetta, dove è responsabile della Microarea, e si occupa anche di questioni burocratiche e istituzionali che riguardano la Fondazione e le persone assistite, e di lavori materiali e organizzativi che riguardano le strutture di accoglienza.

Come nasce la Microarea di Montebello, e come mai è gestita dalla Fondazione?

Montebello ha avuto un percorso particolare rispetto alle altre. Tutte le Microaree nascono come sperimentazione dell’Azienda Sanitaria, per lavorare su territori piccoli e incidere sulle abitudini e gli stili di vita, puntando al fatto che salute non è solo salute, ma è anche lavoro, benessere, di habitat, socialità; hanno un territorio di 2500 abitanti; coinvolgono gli enti istituzionali – Ater, Comune e Azienda Sanitaria – le associazioni di volontariato e singoli cittadini. Sono oramai 15 anni che esistono.

Montebello è nata da un altro progetto tra Ass e Ater, il “Condominio solidale”, nato quando ancora io lavoravo nell’Ass, che prevede l’assegnazione di un appartamento a una famiglia bisognosa, in cambio di ore di lavoro. Abbiamo fatto una ricerca tra associazioni, e la Fondazione Luchetta era una di queste, perché tutti i bambini da essa ospitati, noi li seguivamo come distretto.

Io pensavo che avrei potuto seguirla dall’Ass, ma il progetto è rimasto sospeso. Intanto sono andata in pensione, e subito mi sono presentata alla Fondazione, come volontaria, dicendo “io ho seguito questo progetto in Ass, ora posso seguirlo per voi”. Ed è nato così. La convenzione era già firmata tra Ass e Fondazione, che ha individuato la famiglia, e un anno dopo, quindi due anni fa, il progetto è finalmente partito.

Da qui sono rimasta in Fondazione, dove faccio molte altre cose, dato che conosco gli interlocutori istituzionali, avendoci lavorato per 40 anni.

Due anni fa, poi, il Comune ha preso parte a un progetto Inter-Reg a favore del contrasto dell’emarginazione, delle fasce povere, di anziani e disabili, e ha deciso di inserirlo all’interno del “Condominio solidale” di Montebello, che è quindi diventato un progetto europeo, e da lì al riconoscimento della Microarea è stato una conseguenza logica.

La Fondazione è diventata responsabile della Microarea. I tre enti – Ass, Ater e Comune – hanno voluto che il referente della Microarea fosse una persona esterna al dipendente pubblico, e la Fondazione ha delegato me. In questo caso siamo una eccezione, perché tutte le Microaree hanno come responsabili personale dell’Ass.

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Qual’è la situazione in questa realtà ora?

La Microarea di Montebello ha già alcune attività che in questi due anni abbiamo messo in piedi, nell’attesa di una sede. La prima cosa è stata conoscere gli abitanti. Abbiamo la presenza di bambini e ragazzini è 3-4 volte superiore alla media della città: 160 ragazzini e solo 48 persone anziane. Abbiamo anche tre disabili gravi, comunque legati al mondo dei ragazzi.

Lavoriamo sulla comunità e sugli interventi individuali. I Servizi ci segnalano delle situazioni in cui chiedono una nostra collaborazione. In questo caso noi fronteggiamo queste situazioni con le ore di volontariato prestate dal nucleo familiare del “Condominio solidale”, che è in parte impiegato anche nelle attività complessive.

Con noi, dal’anno scorso, c’è la cooperativa La Quercia che ha una convenzione con il Comune per 10-12 ore alla settimana di presenza educativa. E il resto – l’organizzazione delle attività, la verifica, la presenza – viene svolto da me, con borse lavoro e volontari della Fondazione, in particolare i giovani.

Nei progetti noi lavoriamo con la cooperativa Mary Go Round (promozione sociale e lotta all’esclusione di persone disabili), la cooperativa Alpina (promozione del benessere e socialità, attività e educazione ambientale), Linea Azzurra (ramo del Telefono Azzuro nazionale, educazione contro bullismo, discriminazione e educazione a Internet), e la cooperativa La Quercia che ha una convenzione con il Comune per attività educative rivolte ai minori e seguono casi segnalati dai Servizi, nei quali noi non entriamo.

Con queste associazioni abbiamo lavorato in questi due anni. Abbiamo fatto due feste di primavera, due feste di Natale, una festa di Befana. Abbiamo fatto il cinema d’estate, qua sotto, dove dovrebbe ora sorgere sto famoso campo giochi.

Ma c’è un intoppo. La Microarea di Montebello non è ancora in piena funzione.

Non cresciamo perché manca una sede, ovvero un posto dove la gente può venire. Abbiamo uno spazio dell’Ass, abbastanza bello, ma stiamo aspettando che ci attivino le utenze, che venga arredato per essere agibile. Quando sarà attrezzato, avremo il computer, la rete, e potremmo avviare veramente i servizi e rispondere alle domande della gente, oltre a rendere effettivo il ruolo promozionale. Sarà anche un posto dove le persone ti diranno cosa non va bene, le cose che vorrebbero o non vorrebbero avere: mi immagino già le lamentele con i ragazzi…

Possiamo avvisare e le persone appendendo gli inviti nei portoni, ma dobbiamo anche dire dove possono rivolgersi, e in quale orario, sennò finisce tutto là. Si può fare via internet, ma dobbiamo poter offrire anche noi questo servizio a chi non ha o non sa fare sul computer. Sarà più facile anche rispetto ai ragazzini, se piove o fa freddo, fare delle attività al chiuso. Se non hai un posto, non hai niente.

Poi noi non è che ci limitiamo solo a questo complesso. L’obiettivo è di arrivare fino in piazza Foraggi, perché ci sono altri due palazzi Ater, e la stessa Ater ci ha chiesto di includerli. E’ un’area bella grande, e devi poter dire alle persone “siamo là”: le persone poi ti vengono, perché e più semplice passare alla Microarea che andare in Comune o in un Servizio. La zona di Montebello zona poi non ha niente, per dire, il centro civico è su a San Giacomo. L’Ass ha promesso che metterà qua un suo servizio, non tutti giorni, ma meglio che niente. Ora inizierà la vera sfida.

Chi sono le persone che lavorerebbero nella Microarea?

Per il momento sono i due coniugi e la sottoscritta, più un dipendente della cooperativa. Poi recuperiamo le borse lavoro date dai Servizi. Finora abbiamo avuto ragazzi giovani, giovanissimi, 19-20 anni, che hanno avuto un momento di black-out, un momento di smarrimento profondo, e che attraverso la borsa lavoro, oltre ad altri strumenti dei Servizi, lavorando con i bambini, ne sono usciti: sinora i risultati sono stati positivi.

micro3C’è un’incidenza di giovani altissima, ma questo cartello è decisamente anti-giovani…

Eh lo so, l’ha messo l’Ater perché gli inquilini hanno chiesto che i ragazzi non giochino a pallone perché rimbomba. Da qua è nata la necessità di creare questo campo sotto, che prima non c’era, dove dà meno fastidio. Poi da tutte le parti è proibito giocare a pallone, andare in bicicletta, andare sui pattini e andare sullo skateboard… e hai detto tutto. Dappertutto, anche in Giardino Pubblico c’è lo stesso cartello: i bambini semplicemente non hanno spazi.

Tutte le lamentele ricevute sinora riguardano i ragazzi. E non sono gli anziani a protestare, che sono 48. Per i cani, invece, nessuno si lamenta.
A conti fatti, dopo anni di modello basagliano, la Microarea funziona come strumento?

La Microarea funziona su alcuni punti. Su altri probabilmente si arrena su un tipo di caratteristiche della popolazione che noi abbiamo: è difficile aggregare la persone. Trieste è una città ostica. Gli abitanti non sono disponibili a mettersi in gioco. A parole abbiamo raccolto tante adesioni, ma se devo chiedere un aiuto, mi vengono gli stranieri: zappano, fanno… per un senso di comunità, non perché devono avere per forza un’integrazione.

E l’integrazione culturale è l’altro problema che abbiamo notato. C’è un quieto vivere, tipico di questa città, ognuno a casa propria. Tutti sono tranquilli, parlano con tutti, ma la frequentazione non è trasversale, non è una comunità.

Questa non è una città di stranieri. La maggioranza delle famiglie sono italiane, con l’inserimento di famiglie straniere, dal Camerun, al Bangladesh, Bosnia, Somalia. Ma non c’è una prevalenza. Quindi quando fai un’iniziativa, bene o male arrivano gli altri, non i triestini, che stanno alla finestra, osservano, approvano o disapprovano. E’ una cosa comune per tutte le Microaree. Ci si aggrega per interesse: le mamme con le mamme, i bimbi con i bimbi, gli anziani con gli anziani, gli adulti a seconda dell’hobby o sport. Tra i ragazzini non c’è problema, è una questione che riguarda gli adulti.

Per il resto, la qualità della vita e degli ambienti, prendendo l’esempio di Melara (la prima Microarea di Trieste), sono cambiati moltissimo. Adesso, anche se siamo in una fase di reflusso rispetto agli anni precedenti, comunque il clima è diverso e l’ambiente è più vivibile. Dopo di che ci sono fenomeni sui quali devi intervenire, e che non puoi prevenire, dovuti al razzismo… per esempio, la raccolta di firme a Melara per espellere due famiglie rom, è stata una bomba in quello che è il contesto del vivere civile e della pacifica convivenza.

I progetti di qualità della vita delle situazioni fragili hanno un enorme vantaggio rispetto a quelli che abitano in città dove non c’è la Microarea, dove non ci sono le associazioni che possono coprire quello che sono i buchi naturali e logici che i Servizi lasciano.

Se uno va a pensare, per quanto riguarda la disabilità, tutta la parte socialità non appartiene a nessuno. Che è un problema, perché la solitudine di queste persone di questi nuclei famigliari è notevole. Questa cosa qua viene molto mitigata se c’è una Microarea: c’è l’iniziativa, c’è il cinema, c’è l’associazione che organizza qualcosa. Quindi tu faciliti la partecipazione, se c’è un’associazione che organizza una gita, tu glie la proponi perché possa partecipare, lavori su un aspetto importante nella vita delle persone, ma non strettamente necessario dal punto di vista istituzionale: tutto il discorso della socialità è lasciato alle persone. Da questo punto di vista, quindi, i risultati ci sono e sono notevoli.

L’altro risultato è dal punto di vista sanitario. Alcune persone che abitano all’interno della Microarea, delle quali si è potuto fare il monitoraggio, e hanno malattie croniche o che devono essere seguite, sono all’attenzione del referente della Microarea, che se non altro va a vedere come sta e se ha bisogno di qualcosa, o se sta male, avvisa i Servizi. E’ una funzione mediana, ma che facilita gli intervieni, quindi funziona.

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Ma non c’è solo la Microarea, come volontaria della Fondazione di cos’altro ti occupi?

Ora mi occupo anche dei lavori nelle case, lavori di edilizia, mobili, sgomberi. Lavoro più manuale, cosa che mi diverte tantissimo: arredare, sistemare, lavorare con le piante. Poi c’ho il rapporto con il Comune, seguire con i Servizi socio-sanitari le persone che il Comune, in convenzione, ospita presso di noi.

Sono persone straniere, soggiornanti in città a qualunque titolo, spesso con problemi di salute, cui il Comune non può offrire altra assistenza (come per i cittadini italiani), e quindi ci chiede alla Fondazione di accoglierli, pagando le spese. Facciamo i colloqui con l’assistente sociale, costruiamo un progetto con questa persona o con la famiglia, e poi seguiamo con il Comune l’inserimento sociale (corsi di lingua, di formazione) o il rientro nel paese origine, dipende da situazione a situazione.

Per quanto riguarda i problemi di salute, la Fondazione si interfaccia con il Distretto, e accompagna le persone in questi percorsi: fare la tessera sanitaria, scegliere il medico di base. Di questo si occupano Viviana e Maria, che vivono la quotidianità nelle case di accoglienza. Io mi occupo dell’aspetto istituzionale e di muovermi tra gli uffici, perché li conosco tutti, e sostituisco nelle case se serve. In genere mi piace lavorare con le persone, e non con le carte dietro una scrivania, perché apprezzi – magari non subito – il risultato del tuo lavoro.